Sorelle che uccidono. La banalità del male
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L’ennesima cronaca efferata delle due sorelle che uccidono la madre lascia esterrefatti. Tutti si domandano il perché di questa violenza. Si chiedono cos’è accaduto nella mente dei tre protagonisti e quale processo di rimozione o negazione abbia accompagnato la successiva finzione scenica del dopo delitto. Difficile rispondere perché tutto è complesso, per quanto l’urgenza comune di liberare il campo dall’angoscia che genera sempre un matricidio, chieda di trovare in fretta una ragione all’atrocità del male.

Ma non è così. Non tranquillizza né risolve il sapere il denaro come movente, o l’eredità come prospettiva. Ne abbiamo memoria tutti, quanto meno da Pietro Maso in poi che in questo nostro tempo problematico dominato dall’apparire, molti figli abbiano ammazzato per soldi. Eppure nulla cambia e nessuno si libera dallo smarrimento che genera una tale incomprensibile violenza.

Non se ne esce neanche chiamando in causa i disturbi della personalità e la patologia grave, che in ogni caso andrà comprovata dalle perizie psichiatriche. Ma sovente anche questa sponda del disagio è limitata, oppure completamente assente.

Per la verità la lettura della psiche è sempre molto complessa e chi si occupa delle profondità umane lo sa. Non resta, come possibilità, che la “banalità del male” di cui parlava Hannah Arendt in un suo famoso libro per rintracciare l’incomprensibile. “Banalità del male” che non giustifica le atrocità ma getta un fascio di luce sulla distanza empatica, sulla freddezza e sul distacco emotivo di chi le compie. Distacco che non vuol dire mancanza di coscienza per quello che sta facendo, quanto piuttosto sottolinea, come ha fatto la Arendt con il nazista Eichmann responsabile di aver organizzato il trasporto di milioni di ebrei nei lager, la superficialità del vivere e del gestire la vita di chi compie assurde malvagità, e mette in evidenza la mancanza di contatto con le parti profonde della propria anima.

In genere in questi delitti, lo rivela l’assenza a volte totale del sentimento di colpa. Ed è da questo che vale la pena partire per trovare un possibile significato a tali delitti. Perché, ha ragione Massimo Recalcati quando dice della necessità del senso di colpa per assicurare la formazione del sentimento di legalità individuale e collettiva. Ma va ricordato che tale sentimento si sviluppa solo se si ama l’altro e se si è amati, se i figli nutrono affetti profondi per i genitori perché da loro ricambiati.

In tutti questi aberranti fatti di cronaca familiare, anche quelli che sembrano emergere all’improvviso, ci sono invece storie lunghe di legami inconsistenti, di vite affettive distanti fatte di incomprensioni e odi sommersi, di trascuratezza e indifferenza.

Non è ovviamente una diagnosi a distanza dei protagonisti dell’ultima storia del bresciano, ma ogni volta vale la pena domandarsi quanto e come abbia funzionato il legame genitori-figli e in che modo si sia realizzato l’attaccamento. Senza empatia, ormai lo sappiamo con considerevole certezza anche dalle neuroscienze, non si cresce e non ci si sviluppa. Il bambino se non l’ha sperimentata da piccolo nella relazione con i genitori non potrà viverla da grande.

In altre parole è quasi certo che in storie del genere molte cose della relazione genitore-figlio non hanno funzionato. E per molto tempo.

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