“Sento sulle mie spalle, come un macigno, il peso degli sguardi scettici, prevenuti, schifati e impauriti” scriveva così Seid Visin, il ragazzo 20enne di Nocera Inferiore che si è suicidato pochi giorni fa. Colpisce come sempre la notizia degli adolescenti che si tolgono la vita ma poi sorprende la modalità con cui vengono date le informazioni sui giovani che arrivano alla cronaca per azioni e gesti estremi e le spiegazioni spesso frettolose e superficiali dei motivi che vi stanno dietro.
Affronta questo tema Carlo Sorrentino con un interessante intervento sulla rivista online rivistailmulino.it/, nel quale sostiene il pericolo che produce la generalizzazione dei giudizi sui comportamenti giovanili e la banalizzazione dei fatti, soprattutto se si enfatizzano le notizie drammatiche con una narrazione emozionale. Il rischio, scrive Sorrentino, è quello di polarizzare le coscienze dei lettori e “rafforzare sentimenti e posizioni radicali”.
E così accade anche nel caso di questo ragazzo di origini etiopi, adottato da piccolo da una famiglia del salernitano. Di questa tragedia si sono lette una quantità di considerazioni, alcune orientate a segnalare il razzismo come causa del suicidio e altre tese a negarlo.
Non vi è dubbio che abbiano destato grande impressione le parole di Seid scritte nella lettera pubblicata successivamente alla sua morte, ma dentro il suicidio dei ragazzi non c’è solo un motivo. Vi è un cumulo infinito e spesso insondabile di elementi di dolore. Ci può stare, di certo, l’innegabile sofferenza per il clima di razzismo che il ragazzo denunciava un paio di anni fa e che i genitori hanno voluto ridimensionare. Ma c’è sicuramente il senso di esclusione, magari un corpo negato e rifiutato e relazioni problematiche o difficili.
Non credo che basti allora incolpare la discriminazione razziale, né penso sufficiente accollarsi le colpe di una società ancora incapace di superare i sentimenti di odio razziale pur presenti. Credo serva avere piena consapevolezza delle responsabilità degli adulti di riferimento spesso carenti di azioni educative adeguate che possono alimentare molti dei comportamenti distruttivi e autodistruttivi dei ragazzi.
Conta di più il poter uscire dalle facili semplificazioni e dalle risposte immediate, anche quelle che ci spingono a cospargerci di cenere il capo per colpe troppo facili da riconoscere. Servono domande continue che ci aiutino a riconoscere la sofferenza dei figli nostri e di quelli degli altri. Servono interrogativi sul dove siamo noi e dove stanno oggi gli adolescenti di cui non ascoltiamo il dolore se non quando questo travolge. C’è bisogno urgente di ridurre la sordità distratta della comunità educante che cerca responsabilità sempre da altre parti.
Ricordiamoci che il disagio psichico e mentale colpisce in Italia il 20% dei ragazzi tra i 10 e i 25 anni e che il lockdown ha incrementato i comportamenti autolesionistici e i suicidi. L’isolamento sociale, la solitudine, la povertà relazionale e educativa che si respira in famiglia, sono da considerare concause responsabili della critica condizione giovanile e dell’onda lunga dello stress postraumatico prodotto dalla pandemia che, in tempi non brevi, può trasformare il malessere in vera e propria patologia.
Urge allora trovare nella prevenzione le risposte più significative per contenere il disagio adolescenziale.