“Quelli che non ricordano il passato sono condannati a ripeterlo…” scriveva Primo Levi. Per questo la Giornata della memoria celebrata come ogni anno il 27 gennaio per ricordare la tragedia dell’olocausto ci serve. Ci aiuta a non perdere il passato e a non fare ingiallire le foto della storia, soprattutto quella più terribile e feroce che molti non hanno vissuto e conosciuto direttamente, ma il cui ricordo però contiene vita e morte, sofferenza e dolore, tempo e sentimenti.
Questa è la memoria che va raccontata, ma in continuazione e a partire dalla ricorrenza annuale. Perché nella giornata della memoria, giustamente rumorosa, rivivono i ricordi e le testimonianze, ma quello che conta di più sono le emozioni che quei ricordi contengono. Ed è ciò che serve alla vita. Ci servono storie da raccontare continuamente e ricordi da trasformare giorno dopo giorno.
Per contenere il “male” e trasformare la malvagità umana sembra che non basti l’abbuffata di dibattiti e lezioni sull’orrore, di documenti e proiezioni sull’Olocausto, anche se utile. Ma non è sufficiente una memoria episodica delle tragedie accadute. È utile sicuramente, ma non basta a far crescere la coscienza su quella violenza quotidiana che ancora vediamo imperversare ovunque. In fondo anche se gli orrori della Shoah ci appaiono lontani, la consapevolezza della violenza non sembra ancora sufficiente per contenere le varie forme di prepotenza quotidiana che continuano a proliferare ovunque, a partire dal bullismo divertito dei bambini e fino alla crudeltà fredda e distaccata dei killer seriali delle tante donne massacrate.
Ci servono ogni giorno narratori di storie. Uomini e donne capaci di mobilitare le emozioni e scuotere le coscienze per combattere quella strisciante normalizzazione della violenza che è fenomeno psicologico costante e pervasivo e il cui fil rouge lega lo sterminio di ieri alle tante violenze di oggi che la realtà virtuale potenzia e diffonde con pervasività.
Abbiamo un bisogno vitale di raccontarci la memoria ed è necessario che lo sappiano fare per primi i genitori con i loro figli, i nonni con i nipoti, gli insegnanti con i loro allievi. Dovrebbero narrare di loro stessi e del mondo che hanno vissuto, del cammino fatto e delle strade percorse dal genere umano. Perché i figli di oggi non solo non conoscono la storia del passato, ma sanno poco o nulla dei loro padri. Non hanno idea dei loro genitori quando erano giovani o bambini e non hanno coscienza di ciò che è accaduto prima della loro vita perché quei padri non dicono e molti adulti non lasciano consegne.
Purtroppo, il rischio è che gli anniversari si ripetano anno dopo anno ma non riescano a contrastare quella “banalità del male” di cui parlava la filosofa Hannah Arend. Come allora, quello che è più pericoloso e inquietante è la strisciante indifferenza alle quotidiane espressioni di intolleranza e di odio che, insieme all’abitudine, rende banale e normale la ferocia e il crimine.