Marina e Santina, l’amicizia straordinaria di una vita intera
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di Marina Ramonda

Per gentile concessione della rivista ARTECULTURA di Teodosio Martucci.

Era gennaio…

“Buongiorno sono qui per l’inserzione su Secondamano, volevo sapere quale sarebbe il lavoro?” dissi, fingendo una sicurezza che non avevo, di certo dovevo trovare lavoro e casa entro sera.

Tu dalla tua carrozzina mi avevi sorriso, tua madre vicino a te iniziò a farmi le giuste domande di un colloquio di lavoro: “Serve una persona per l’assistenza fisica a mia figlia, che è tetraplegica spastica, lei ha già fatto questo lavoro?”
Io dissi: “No”
Lei: “Ma non ha mai assistito nemmeno un familiare?”
“Persi tutti presto”, dissi.
Sa fare le punture? No,
Sa guidare? No,
Sa fare le pulizie di casa? Perché dovrebbe fare anche quelle, dopo aver assistito mia figlia Tina” Io: “Mah! Ho pulito il mio monolocale, ma direi che non ho esperienza di grandi appartamenti” Lei: “Sa cucinare?”, ed io: “cose semplici”.Ormai mi accingevo ad alzarmi, era evidente che non ero all’altezza del lavoro, soprattutto non avevo l’esperienza necessaria, Tua madre disse rivolgendosi a me “Aspetti” e subito dopo guardandoti: “L’abbiamo trovata!”, sentii un “Si!” provenire dalla tua parte con accanto un sorriso. Dentro di me guardandoci pensai, “siamo proprio matte tutte e tre!”
Così inizio l’avventura di questa quotidiana amicizia straordinaria fra Marina e Santina, fra me e lei, era il 16 gennaio 1981, l’anno dell’handicappato ovvero “era destino”

Nulla è impossibile. Non ti preoccupare


Ti avevano già individuato come “persona pericolosa”, tenuta lontano dagli altri passeggeri, quando viaggiavamo, era senza nessuna tutela, su carri merce, spesso con cani lupo, piccioni “profumati” e anche pesci tropicali ma anche pacchi, pacchettini e chissà anche plichi preziosi: io seduta sulla tua comoda e tu con i soli freni della carrozzina.
D’estate morendo di caldo e d’inverno di gelo, con l’aria che veniva da quell’unico gran portellone a tapparella, che minaccioso sembrava risucchiarti, quando il treno macinava chilometri.
Ridendo pensavamo ai film americani, dove il protagonista prendeva in corsa il treno verso la libertà sperata, anche tu cercavi forse la tua liberazione?
Il bagno, questo luogo superfluo che c’inventavamo su quella sedia sdraio “elevata” a comoda, mentre il treno viaggiava e noi ridendo, rischiavamo di cadere ogni volta, per raggiungere il trono, sperando che il buon Dio ci proteggesse la privacy dalla visita inaspettata di controllori zelanti.
Quante lettere di assunzione di responsabilità hai firmato? E quante discese e salite a braccia di generosi ferrovieri e di qualsivoglia essere umano muscoloso di buona volontà, a rischio di volare sotto il treno? Quante battaglie perché le cose cambiassero, perché “Nulla è impossibile” vero? Un arrivo a Roma fra tanti, discesa dal treno piene di bagagli, sole tu ed io, la pensione “Varese” abbastanza vicina alla stazione, ma pur sempre con le distanze romane e le strade sconnesse in discesa e salita.

“Nulla è impossibile” affermi perentoria.
Mi dico: “In fondo sono le 21 di una sera d’inverno, alla vigilia di una partenza per Roma, per la discussione di un tuo esame in psicologia”, tu, la tua carrozzina, i bagagli, i libri, il beauty, i secchielli, la comoda ed io dovremmo partire in macchina……
C’è solo un piccolo particolare: nessuno guida.
La rubrica del telefono è stata vivisezionata ma non abbiamo trovato nessun volontario, come oso io solo pensare che la partenza è impossibile? Sono impazzita?
“Dai riprendi i numeri telefonici”, dici “ci sarà sfuggito qualcuno, dobbiamo partire”, penso che sei pazza, sbuffo e riprovo, naturalmente trovammo e partimmo.E le partenze in treno? Tutto doveva essere programmato per tempo, contattare il capotreno che capisse la situazione, cosa non sempre facile, una volta uno di loro, con un fare lapalissiano, mi disse: “Ma se la signora è disabile e ha difficoltà a partire perché lo fa?”

Chiedo: “Mamma mia Tina come facciamo ad arrivarci?”, mi guardi e rispondi con una seconda frase magica, “non ti preoccupare”.
In silenzio osservi se ho recepito il messaggio e sulla banchina della Stazione Termini avviene una composizione da cubo di Rubick.

“Dunque, metti la comoda piegata sul tavolino che ho inserito nella carrozzina, sopra metti la valigia, il secchiello inseriscilo in questa vite a fianco, il beauty a cavallo delle manopole con cui spingi la carrozzina, lo zaino lo porti tu sulle spalle”, dubbiosa replico “ma Santina come facciamo ad arrivare all’albergo? Roma è tutta sali e scendi, questo bagaglio scivolerà, ci potremmo far male”. Tu mi guardi e ripeti la magia “non ti preoccupare! Prendi il filo del registratore che c’è nello zaino, lo avvolgi nella comoda che sostiene tutto e lo leghi al mio collo, tengo tutto io”.
Così feci e questa coppia pittoresca si avviò verso l’uscita della Stazione Termini.
Tutto si vedeva, tranne la testa di Santina, vedevi solo i bagagli su una carrozzina, ma con piglio sostenuto ci avviammo ad attraversare Piazza Indipendenza, poi, in discesa, pregando silenziosamente, imboccammo la via dell’albergo, in quel mentre, un cliente di una trattoria romana, uscì per fotografarci: facevamo “colore” anche all’epoca.
“Nulla è impossibile e non ti preoccupare” sono solo alcune delle tante note che hanno punteggiato lo spartito della nostra vita, Portelli!

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