Dalla passione alla compassione il passo non è grande, ma impegnativo. Perché la compassione che deriva dal latino “cum patior” è sentimento che ti fa soffrire con chi soffre. Ma non è la condivisione dell’empatia. È di più. È altro.
Shopenhauer, filosofo, scriveva che “La compassione è un complesso di pensieri realissimo e nemmeno raro… è partecipazione immediata e incondizionata ai dolori altrui e perciò alla cessazione o alla eliminazione di questi dolori.” (Il fondamento della morale). Per questo l’empatia non coincide con la compassione.
Quel “Mi metto nei tuoi panni” è una metafora che non scende nella profondità della compassione. Caso mai è un’immagine che ti fa pensare al mettere il cappotto o la giacca di un altro, la sua camicia o la maglia. Ma a nessuno viene in mente che l’empatia dovrebbe corrispondere all’infilarsi nella biancheria intima di un’altra persona. Fanno meglio gli anglosassoni quando dicono “Mi metto nelle tue scarpe!” che dà l’idea dell’entrare dentro “il sentire” altrui.
Questa è compassione. Un sentimento di intimità, uno stato fisico e condiviso del dolore altrui, una “pena” interna e un’afflizione profonda che avverti quando vorresti risolvere la sofferenza dell’altro. È desiderare di alleviarla, non solo di coglierla.L’empatia, che vorremmo veder crescere fin dalla prima infanzia, rimane la porta di accesso alla compassione, la soglia attraverso cui si entra nella dimensione privata del dolore. È la condizione preliminare di attenzione e ascolto partecipato che non richiede parole ma il coraggio del silenzio, non formule magiche di consolazione, ma una presenza attiva senza giudizio.La compassione è solidarietà e altruismo.
È un agire, ovvero un tentare azioni e non usare parole di comprensione davanti alla sofferenza, alla malattia, al lutto o alla povertà. Niente verbi o aggettivi che la definiscano, ma identificazione umana con l’altro e allo stesso tempo coscienza delle proprie materiali insufficienze, quelle che ci vorrebbero far scappare dal dolore o allontanarci dalla fatica della partecipazione e da quel senso di inutilità che pur si prova davanti a chi sta male.
La compassione è uno stare accanto a chi soffre senza esibizione del proprio mondo, rinunciando al proprio ego. E qualcuno deve aver detto che la compassione ci rende umani, perché ci permette di cogliere la fatica della vita altrui dimenticando la nostra.
Oggi le neuroscienze affermano che questo sentire è uno strumento che condividiamo con i primati e che ci rende capaci di cogliere la sofferenza e immedesimarci nell’altro. I “neuroni specchio” che trenta anni fa la ricerca ha scoperto, ci confermano che esiste una dotazione biologica della compassione e dell’altruismo ed è con questi che da piccini sappiamo aiutare ed essere solidali.
Ma al contempo la psicologia insiste sul fatto che fin dalla nascita abbiamo bisogno di adulti capaci di amarci e proteggerci, di farci crescere e educarci alla solidarietà e all’ascolto partecipato senza pregiudizi, al dialogo e alla comunicazione senza violenza.