Il viaggio coincide con la vita, anzi ne è la sua stessa essenza. Il viaggiare è la forma e più ancora la narrazione che ne facciamo.
Allora è d’obbligo qualche riflessione sui vari significati che ha il viaggio in questo nostro tempo, dove accanto alla connotazione turistica così comune nel mondo occidentale, coesistono altre tipologie del viaggiare e altri viaggiatori.
Storicamente c’è da sempre il nomadismo umano che rappresenta il bisogno di ricerca continua di territori dove abitare l’esistenza anche se in modo provvisorio e temporaneo. Poi c’è il viaggiare come risposta drammatica al conflitto e alla devastazione. Quel viaggio è la storia della speranza alla ricerca di una libertà compromessa che appartiene ai popoli migranti di oggi, la cui sofferenza è fatta memoria proprio nella giornata mondiale del Migrante e del Rifugiato. Essi vivono il viaggio come fuga dall’inferno e salvezza. Ma non sempre, come sappiamo, è esperienza liberatoria. Al contrario spesso si conclude in tragedia o, più ancora quando prevale il pregiudizio, è un viaggiare senza solidarietà e vuoto di accoglienza.
Per tutti però, il viaggio rappresenta (o dovrebbe rappresentare) un’esperienza di crescita e di sviluppo. Qualunque sia la motivazione del nostro viaggiare si tratta sempre di un percorso di ricerca e di un’avventura che spinge verso il raggiungimento di una nuova dimensione.
Da sempre, infatti, l’uomo si muove secondo una geografia interna e una dimensione dello spirito che di frequente anima l’esplorazione di sé e della propria realtà interna. Anche se tutto parte dall’esplorazione del mondo.
Da qui nasce il pellegrinaggio. Cioè quella tipologia del viaggiare che è al contempo desiderio di purificazione e bisogno di espiazione. Sospinti dalla fede (non importa quale) c’è il bisogno di avvicinarsi al sacro che da sempre ha a che fare con la ricerca di un legame tra l’uomo e il divino. È così pellegrino il musulmano che si reca alla Mecca almeno una volta nella vita ed è pellegrino il cristiano che arriva a Santiago de Compostela o si reca a Gerusalemme.
Poi nel viaggiare troviamo una memoria ancestrale che si attiva. Secondo lo psicoanalista inglese John Bolby, infatti, il viaggio è in grado di rievocare a livello inconscio l’esperienza antica dei neonati che fin dalla preistoria viaggiavano sulle spalle dei genitori. In realtà, accade ancora oggi tra le popolazioni del continente africano dove le donne di abitudine si portano in giro appesi alle spalle i loro piccoli che, rilassati, si godono passivamente il mondo circostante oppure, tranquilli si addormentano cullati dal movimento del corpo materno. È proprio l’attivazione di quel “ricordo” di dondolio ritmico che, secondo Bolby, tranquillizza ancora oggi i piccoli e arresta il loro pianto quando li culliamo.
Di certo allora il viaggio ha un significato profondo soprattutto se è collegato al cammino e dunque, allo sforzo fisico del movimento.
Per estensione così è viaggio ciò che ci fa spostare e il viaggiare ci consente di allontanarci dalle nostre certezze. Viaggiatore è chi si separa dal noto. Chi spezza i legami e si mette in gioco, chi si mette alla prova. L’essenza del viaggio è la fatica insieme alla resistenza. I grandi cammini sono avventure dello spirito e attraversamenti di spazi solo apparentemente fisici. Soprattutto interni.
Viaggiare attiva il processo di individuazione che rimanda al bisogno di verità da trovare e svelare. Il cammino della coscienza che faticosamente va alla scoperta di territori nuovi e apparentemente irraggiungibili. Analogamente ai miti più antichi e alle narrazioni come all’Odissea, ancora oggi il viaggiare ha significato se permette davvero di attivare l’archetipo dell’esploratore che ci appartiene e che ha a cuore il viaggio come ricerca di senso all’esistenza.
Ascolta l’articolo