Mascherine e sviluppo psicosociale
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Con quali modalità i nostri giovani potranno rientrare a scuola all’inizio del prossimo anno scolastico? È questo un tema attuale e di grande discussione che vede opinioni diverse e contrastanti. Il filo conduttore è, di certo, quello della sicurezza, ma la difficoltà nasce dall’impossibilità di definire e quantificare oggettivamente un pericolo che al momento attuale ha i contorni sfumati e, quindi, di fatto, resta un pericolo ipotetico. Nel dubbio si amplificano inevitabilmente le ipotesi e i poli della discussione per cui, da un lato ritroviamo posizioni molto restrittive per una necessità di precauzione di fronte all’evenienza di una ripresa epidemica e dall’altro lato posizioni più critiche, fondate sulla considerazione che le stesse misure restrittive comportano delle conseguenze negative e, quindi, vanno considerate anch’esse con precauzione.


Nello specifico, l’oggetto della discussione verte intorno alle misure di distanziamento sociale e all’uso delle mascherine, e si preoccupa di quanto queste misure potrebbero causare dei danni o delle conseguenze più rilevanti del pericolo da cui dovrebbero difendere, riconoscendo la socializzazione quale bisogno essenziale e quale aspetto fondante lo sviluppo psicofisico.


Molto si è scritto e detto in merito agli effetti del distanziamento sulla capacità di relazione e di contatto, e in merito agli effetti delle mascherine sulla fisiologia respiratoria; ma c’è un aspetto che, nelle discussioni attuali, a mio avviso viene trascurato quando, invece, dovrebbe essere tenuto in grande considerazione, visto l’impatto sullo sviluppo dei piccoli. Faccio riferimento, specificatamente, all’effetto delle mascherine sui meccanismi di modulazione emozionale nelle relazioni.


Perché i banditi si coprono il viso? Domanda banale, a cui segue la risposta banale: per non essere riconosciuti, ovviamente. Quando abbiamo il volto coperto, infatti, il riconoscimento è più difficile, se non impossibile. Ora, se questo è funzionale a chi non vuole farsi riconoscere, diventa disfunzionale (se non proibito) in tutte quelle situazioni dove, invece, il riconoscimento è il presupposto alla relazione e all’incontro con qualcuno, che sia un incontro superficiale o affettivo.


È importante sapere, però, che il riconoscimento facciale non serve solo a identificare chi abbiamo di fronte, ma riveste un ruolo fondamentale soprattutto per modulare – istante dopo istante – la relazione con il nostro interlocutore, dal momento che le espressioni della mimica facciale manifestano le emozioni e gli stati d’animo che prontamente vengono captati dai neuroni “a specchio”, e che forniscono la decodifica necessaria nell’interazione per sapere cosa prova chi abbiamo di fronte e come dobbiamo, quindi, rispondere.


Va, infatti, ricordato che le emozioni si manifestano squisitamente attraverso la mimica facciale, la quale diventa così una componente fondamentale della comunicazione non verbale: se pensiamo ad un’emozione, infatti, automaticamente l’associamo ad una certa espressione facciale, a tal punto che sono state pure inventate le emoji, quelle “faccine” stilizzate che tutti usiamo nei social e nei messaggi telefonici per rappresentare in modo rapido e universalmente comprensibile un determinato stato d’animo.


Questo fenomeno è mediato da un substrato biologico. Il Sistema del Coinvolgimento Sociale, la struttura funzionale che regola le interazioni con gli altri, infatti, è mediato dalla componente ventrale del nervo Vago la quale, al tempo stesso, rappresenta pure la componente prevalente dell’innervazione dei muscoli facciali. Da questo ne consegue che, quando il Sistema del Coinvolgimento Sociale funziona liberamente, la muscolatura facciale è libera e l’espressività può essere piena; quando il Sistema del Coinvolgimento Sociale è segnato da esperienze traumatiche, invece, la muscolatura è bloccata ed anche l’espressività facciale è limitata: è il caso, ad esempio, delle persone traumatizzate che tendono, per l’appunto, ad assumere una “facies amimica”, ovvero una mimica inespressiva o congelata. Socializzazione, espressività emotiva e mimica facciale, quindi, sono funzionalmente e neurologicamente correlate; in tutto questo, i neuroni a specchio hanno un ruolo decisivo: la loro piena e corretta funzionalità è la base per lo sviluppo dell’intelligenza emotiva e delle capacità di socializzazione.


L’intelligenza emotiva, il presupposto per una socialità matura, è fondata sull’empatia ovvero sulla capacità di percepire e riconoscere l’altro come un soggetto che vive e sperimenta stati d’animo diversi dai nostri e sulla capacità di comprendere tali stati d’animo. Ma l’empatia è possibile proprio grazie alla funzione di decodifica ad opera dei neuroni a specchio, che leggono per l’appunto le espressioni della mimica facciale, e percepiscono, attraverso tali espressioni, le emozioni dell’altro.


Cosa succede quando il volto è coperto? Non è possibile leggere l’espressione facciale; di conseguenza, non è possibile comprendere le emozioni dell’altro e, quindi, diventa più difficile, se non impossibile, relazionarci in modo sicuro. Quando ci relazioniamo a qualcuno che ha il volto coperto, i neuroni a specchio non possono adempiere alla loro funzione e tutto il processo di interazione e socializzazione viene influenzato negativamente.


Quali potrebbero essere, quindi, gli effetti delle mascherine a scuola? Cosa potrebbe succedere ai bambini, se saranno costretti ad interagire con compagni e con adulti dal volto coperto? Nessuno lo può dire per certo; ma di sicuro possiamo dire che l’uso della mascherina, oltre che con i processi della fisiologia respiratoria, interferisce con i processi di riconoscimento, di lettura e di decodifica emozionale, cioè con i processi che stanno alla base dello sviluppo psicoemotivo, perché la percezione dell’espressività facciale è il presupposto su cui matura l’empatia e l’intelligenza emotiva.

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