La gratitudine è parola desueta. Ovvero in disuso. Ma soprattutto non si insegna e men che meno si educa alla gratitudine perché narcisismo e competitività nelle relazioni sembrano ripagare di più. Si dicono tanti “grazie” ipocriti in cui c’è poca o nulla partecipazione affettiva.
Ha ragione Delphine de Vigan che nel suo libro Le gratitudini (Ed. Einaudi) chiede “Quante volte al giorno dite grazie? Grazie per il sale, per la porta, per l’informazione. Quante volte avete detto grazie sul serio? Un vero grazie. Espressione della vostra gratitudine, della vostra riconoscenza?”.
Appunto “grazie”, che è una parola semplice e scarna, ma spesso logora perché usata nella quotidianità senza impegno e senza riflessione, senza pensiero né emozione. Invece abbiamo bisogno della gratitudine che è un sentimento pieno e indefinibile, completo anche senza la quantità del “Grazie mille” o del “Grazie infinite” con cui spesso tentiamo di dare spessore alla nostra riconoscenza. Non serve al “grazie” la quantità perché prima di tutto la gratitudine è memoria, apprezzamento amorevole e piacere per qualcosa che sta dentro una relazione di cui si è “grati”.
Gratus, in fondo è l’origine latina del grazie ma lo è anche del gratuito che fa della parola gratitudine qualcosa di non commerciale, che non ha nulla a che vedere con la “partita doppia” quella, per intenderci, del dare-avere che oggi invece prevale nelle relazioni di ogni tipo, purtroppo anche in quelle affettive (“Ti amo per essere amato”).
La gratitudine è complicità paritaria tra il sentire di uno e dell’altro e non si misura.
È il contrario dell’invidia che, diceva Melanie Klein allieva di Freud, è al contrario un “sentimento burbero” perché impulso che spinge a desiderare di portare via qualcosa ad un altro, non a condividere. Così dove c’è invidia e gelosia non ci può stare la gratitudine e dove manca il riconoscimento dell’essere grati agli altri, c’è il potere della violenza.
“… Gratitudine è una delle espressioni più evidenti della capacità di amare” insiste la Klein dicendo che essa è “fattore essenziale per apprezzare la bontà degli altri.”
Abbiamo bisogno di gratitudine, che non è un formale ringraziamento, ma un “sentire” intimo e profondo che si apprende precocemente nella relazione preverbale madre-bambino e non è fatta di parole ma di sguardi, di ascolto e attenzione reciproca da cui ne consegue per entrambi sicurezza e benessere.
Si tratta allora di “imparare la gratitudine” o, più ancora, di essere educati ad essa e ad essere grati per ciò che si riceve. Numerose sono le ricerche che sottolineano i benefici della gratitudine e che, nello stesso tempo, ci dicono di come la gratitudine non sia solo un dono, ma una dote che si può allenare e sviluppare. Se lo facciamo produce cambiamenti e ci migliora.
Non si può insegnare la gratitudine come una materia scolastica, ma gli adulti la possono trasmettere ai piccoli non tanto chiedendo loro di dire “grazie” al prossimo, che pure serve se è autentico e partecipato, quanto mostrando con l’esempio e nella quotidianità che l’essere grati e riconoscenti vuol dire apprezzare e condividere con gli altri ogni momento che la vita ci offre