Ritorneremo a scuola, quella che abbiamo dato per scontata fino a qualche mese fa e che mai avremmo pensato che ci sarebbe stata sottratta. Una scuola fatta di incontri e scontri, di passioni e di voci, di progetti e di illusioni. Siamo stati obbligati a sostituirla con la Dad, inventandoci una modalità di comunicazione estranea alla maggior parte di noi, abituati alla lezione dialogata, al confronto con i nostri studenti sia sulle discipline di studio, sia sui loro quotidiani problemi.In qualche modo siamo rimasti in contatto, ci siamo impegnati a continuare quello che avevamo programmato dal punto di vista disciplinare, rendendoci rapidamente conto che si trattava di un insegnamento piuttosto nozionistico, che lasciava ben poco spazio al piacere della scoperta. Ci siamo inventati strategie per rendere meno trasmissivo il nostro insegnamento, ma temo che i risultati siano stati inferiori alle energie profuse.
Ma torneremo a scuola. E questa esperienza dovrà necessariamente averci insegnato qualcosa.
Non riesco però a parlare di scuola come un blocco monolitico, ma di scuole, molto diverse le une dalle altre. In 30 anni di dirigenza nelle scuole primarie, secondarie di primo e secondo grado, quasi tutte in provincia di Bolzano, ho sperimentato modelli di scuole che poco avevano in comune, pur avendo tutte degli aspetti positivi e altri critici. Ma in alcune scuole ci vorrei tornare, per consolidare quello che tutta una comunità, insegnanti, dirigenti, studenti, famiglie e personale non docente, avevano costruito.
Una vera comunità educante in cui il singolo non era mai lasciato solo, a partire dai docenti che in team costruivano un curricolo condiviso, ponendo attenzione alla continuità verticale tra le classi e alla continuità orizzontale con il territorio. Si trattava di un giusto equilibrio tra esperienze di insegnamento/ apprendimento in aula o in laboratorio e in ambienti extrascolastici, in cui i laboratori diventavano la città, la montagna, il mare, un’ officina artigianale e mille altri luoghi in cui i ragazzi sperimentavano il piacere della scoperta dei saperi e sviluppavano il pensiero creativo, divergente. In questo tipo di scuola era valorizzato il gruppo, non solo come luogo della socializzazione, ma come gruppo di apprendenti, perché era diventato chiaro a tutti che attraverso il dialogo e il confronto sorgevano dubbi cognitivi e riflessioni che favorivano l’accrescimento di conoscenze e competenze.
Solo una scuola cooperativa e non competitiva poteva prediligere la dimensione collettiva anziché quella individualistica, dove aveva senso parlare del noi, anziché solo dell’io. In questa scuola ci si poteva fidare degli studenti, della loro capacità di progettare e realizzare dei percorsi teatrali, musicali, sportivi e artistici, in cui i ragazzi potevano mettere in campo le loro diverse intelligenze e i loro sorprendenti talenti. Potrei scrivere a lungo dei progetti attivati in queste scuole, del clima che si respirava entrandoci, delle passioni che circolavano e che coinvolgevano tutta la comunità, famiglie comprese. E quando finalmente ci ritorneremo in queste scuole aperte, dovremo ricordarci quanto ci è mancata questa dimensione collettiva, per non intrappolarci nella logica del controllo e delle verifiche, per non farci schiacciare dall’ansia del programma da “recuperare”. Abbiamo molto altro da recuperare, a partire dalla dimensione del noi.
Ma abbiamo detto di altri diversi, antitetici modelli di scuola, in cui troppo spesso gli studenti si sentono inadeguati, incapaci di sostenere il quotidiano peso di interrogazioni e verifiche, quasi sempre individuali. La frustrazione diventa così insopportabile da preferire l’isolamento o il ritiro, per non deludere ulteriormente insegnanti, genitori e soprattutto se stessi. In queste scuole diventa difficile il confronto anche tra insegnanti, perché molti ritengono che che lo studente debba essere valutato in modo oggettivo sui risultati ottenuti, indipendentemente dalla sua storia personale, dai suoi momenti di crisi o di sofferenza. In sede di consiglio di classe si assiste perciò a dei veri e propri conflitti tra opposte idee di scuola.
I progetti, i soggiorni studio, le uscite sul territorio diventano per alcuni degli intralci all’insegnamento /apprendimento, che può avvenire esclusivamente in aula, dove la voce del docente occupa 3/4 del tempo parola; per altri docenti, e non sempre i più giovani, come erroneamente si crede, non bisogna rinunciare a metodologie attive e innovative per ottenere dei risultati significativi.Torneranno a scuola gli uni e gli altri, mi auguro che la DAD abbia contribuito a mettere in discussione un modello di insegnamento /apprendimento in cui il docente svolge il suo insegnamento davanti a uno schermo ( o a una classe muta, che è lo stesso ), per poi procedere a verificare individualmente l’acquisizione di conoscenze. E’stato talmente avvilente per il docente (immaginiamoci per il discente), che non posso pensare che il post Covid-19 non apporterà almeno delle riflessioni, se non dei timidi cambiamenti in questi ultimi modelli di scuole.