Il filosofo Luciano Floridi ha coniato il termine “onlife”, vocabolo intrigante e sintesi efficace per dire che la nostra vita ormai non è più divisibile tra l’essere online e offline, ma è sempre sia l’una che l’altra.
Così tutti viviamo un’esistenza in gran parte socializzata dai social, stracolma di comunicazioni via web, su smartphone e tablet e quella quotidiana di contatti tradizionali.Però a fare un calcolo anche approssimativo, possiamo notare che si trascorre molto più tempo in Internet che nelle piazze e nei cortili, ormai decisamente svuotati di presenza umana e sicuramente silenziose di voci infantili. Per le nuove generazioni è ancora più evidente.
Nei miei anni giovanili, al di là del tempo domestico e scolastico, si viveva fuori, nelle strade e avevi lo “struscio” o le “vasche” del tardo pomeriggio, finiti i compiti e prima di cena, per le relazioni. Adesso invece in gran parte la vita, per i nuovi adolescenti è altrove, dislocata online, per certi versi ritirata, senza che per questo sia meno sociale. È appunto onlife.
E sarebbe uno sbaglio, pensare che i cosiddetti “ritirati” chiusi in una stanza e invisibili al mondo, siano i ragazzi, soprattutto maschi, che non vivono, perché catturati dalla rete e prigionieri del mondo virtuale. Gli “hikikomori” non sono né fuori dal mondo né “offlife”, sono dentro e non diventano isolati per la dipendenza dai videogiochi, ma forse perché patiscono qualcosa, cioè soffrono del mondo che non promette e non dà sicurezze. Allora si fugge distante, ci si assenta da tutti e si scappa a nascondersi, quando un tempo si fuggiva di casa, è vero, ma per cercare, in autostop, mete distanti e promesse da inseguire per un futuro possibile in cui si credeva.
È solo un’altra modalità dell’esistenza.Ma c’è qualcosa che manca alla generazione Z e questa, a mio avviso, è la prospettiva, la visione dei giorni che ci saranno e non si vedono, l’attesa e l’energia per resistere e progettare. Manca agli adolescenti di adesso e manca soprattutto agli adulti che invece sono ansiosi, terribilmente preoccupati per il tempo a venire. In fondo, occupandomi di “ritirati sociali”, mi capita spesso di pensare che il ritardo con cui in famiglia ci si accorge che un adolescente è sulla strada dell’isolamento, sia quasi da attribuire al fatto che “se mio figlio è a casa nella sua camera, questo mi tranquillizza”.
Un tempo i ragazzi non parlavano con i genitori per paura delle punizioni, per la severità dei castighi, ma c’erano trasgressioni nascoste, spesso dirompenti ed esplosive che mettevano in subbuglio gli equilibri familiari e aprivano conflitti ma anche discussioni. Oggi invece i figli tacciono i loro problemi, li tengono nascosti sotto felpe lunghe e larghe che non lasciano intravvedere tagli alle braccia o corpi esili che smagriscono di continuo.
Non dicono i loro desideri perché spesso non ne hanno in quanto soddisfatti prima del nascere, ma soprattutto sono silenziosi e non fanno sapere ai genitori le loro angosce e i loro pensieri, per non farli star male. Così in casa regna un rumoroso silenzio e ognuno pensa che sia più rassicurante il non dire e il quieto vivere con cui non si mette in crisi nessuno.
Di certo c’è un crescendo di protezione reciproca e uno sforzo da ambo le parti di difendere relazioni così precarie che potrebbero diventare ancora più deboli e instabili. In altre parole c’è ovunque la consapevolezza della fragilità dei rapporti e la difficoltà a renderli solidi. Ma è questa la vita che viviamo nel tempo digitale.