La pace non è il contrario di guerra, caso mai è il polo opposto della violenza e del “male”. Tra queste polarità, però, si sviluppa la tensione tra gli opposti che spesso condiziona la capacità di scegliere il bene o il male, la pace o la guerra.
Più ancora dallo scontro di queste antinomie, nasce la contraddittorietà dell’individuo. Quella ad esempio che porta a rifiutare la guerra e ad armarsi, a invocare la pace e a costruire arsenali. L’ambivalenza umana è la conferma di quanto l’uomo fatichi a mediare tra gli opposti. La pace invece è sempre una mediazione e una conquista, non un dono del cielo.
Ho trovato la stessa ambiguità rivedendo di recente il celebre film di Stanley Kubrick “Full Metal Jacket” sulla guerra in Vietnam in cui il soldato Joker esibisce sull’ elmetto la frase “Nato per uccidere” e, in bella mostra, anche il distintivo inconfondibile della pace.
È questa dualità umana che il regista vuol mettere in evidenza. La fa dichiarare al marine che cita la spiegazione psicologica di Jung ed è, quella di Kubrick, una magistrale lezione sulla violenza e sull’impossibilità di “liberare gli uomini dalla fatalità della guerra”.
Ma se è impossibile eliminare la pulsione distruttiva dell’uomo, lo è almeno fin tanto che l’individuo non riesce a risolvere la propria conflittualità interna e ad arrestare quell’oscillare dal desiderio di pace all’eccitazione per la guerra.
La guerra, ubiquitaria nello spazio e costante nel tempo, è dimensione archetipica, sovrapersonale e precede l’individuo. Le “culture” stesse nascono dallo scontro tra vita e morte e dalla lotta infinita tra la ricerca del bene e la pulsione per il male come propensione verso ciò che destruttura e distrugge.
Inevitabile e ineluttabile, la guerra è però quella dell’uomo che porta il conflitto fuori dai confini interiori e lo rende collettivo. Ogni guerra infatti, è sempre una questione di confini e ha a che fare con il potere e la voglia di oltrepassare il limite tra terra e il cielo, tra umano e divino.
A saltare con i conflitti bellici, è proprio il senso del limite che fa regredire l’IO al collettivo indifferenziato e caotico delle masse, dove il pensiero perde di autonomia e l’eros diventa il piacere della violenza e il compiacimento per l’aggressività distruttiva.
Difficile è dunque costruire la pace, se non si ristabiliscono i confini individuali entro cui ognuno sa tenere dentro il male, lo riconosce e lo sa gestire. Impossibile negoziare la pace se non si riprende la dialettica del confronto tra gli opposti e faticoso educarla se non impariamo fin da piccoli la gestione quotidiana dei conflitti.
Altrimenti valgono le parole del Girotondo di Fabrizio De André:
Se verrà la guerra, Marcondiro’ndero
Se verrà la guerra, Marcondiro’ndà
sul mare e sulla terra chi ci salverà?
La guerra è già scoppiata, Marcondiro’ndero
Ci aiuterà il buon Dio, lui ci salverà
Buon Dio è già scappato, dove non si sa
Buon Dio se n’è andato, chissà quando ritornerà