Ansia è parola comune e diffusa, assimilabile ad altri vocaboli come paura, preoccupazione, angoscia, ma ha una sua dimensione specifica. È allarme e inquietudine che non ti abbandona, ti insegue ovunque senza motivo.
Così non sai che ragione ci sia per quella paura che non ha nome né volto, eppure è dominante, a volte nemica e altre compagna di viaggio, ma assillante. Di fatto ti svegli e la senti, o meglio ne intuisci la presenza e te la ritrovi accucciata al tuo fianco, lì che ti aspetta. Ti domandi da dove viene o chi l’abbia portata, ma non trovi risposta. Non conosci il suo volto ma ti è familiare e sai che può essere perversa e persecutoria, capace di frantumarsi in mille rivoli d’inquietudine e incertezza o diventare terrore e dolore sconfinato. Vorresti dominarla, ma è lei che comanda, lei che impone i suoi tempi e ti fa correre o ti blocca.
A volte diventa panico, rigidità, terrore della morte. Cuore impazzito che pare esplodere o arrestarsi, respiro in affanno, muscoli rigidi che non rispondono, paralizzati senza motivo. È uno sconfinato Tsunami che al passaggio lascia macerie infinite, soprattutto incertezza e precarietà.
Ma il panico non è la traiettoria usuale dell’ansia che invece è consueta, costante, quotidiana. È il pensiero della turbolenza che potrà arrivare anche se il cielo è sereno.
Ci allarma senza motivo l’ansia, ma ci mostra le parti fragili o le assi sconnesse dell’anima che non vediamo. È fatta di parole mai dette, oppure solo pensate, di sensazioni scoperte dopo un’avventura sconvolgente o un travaglio pesante che ci ha messo in ginocchio. Piegati ad esempio dalla pandemia, non vi è dubbio che sia stata incontrata la precarietà della vita e l’ansia sia comparsa come scoperta di debolezza. Non l’ha inventata il Covid. Caso mai l’ha potenziata e ha svelato l’illusione di essere invincibili mettendo a nudo un’anima fragile e insicura.
L’ansia è la scoperta dello sconosciuto che ci appartiene e abita il sottosuolo della coscienza, l’inconscio che non incontriamo ma di cui abbiamo memoria (Dostoevskij, Memorie dal sottosuolo, Mondadori). È il nostro personale migrante che arriva sulle sponde in cui viviamo apparentemente tranquilli. È lo straniero colonizzato, asservito e che vorremmo al suo posto, oppure da ricacciare indietro.
È la narrazione del ritrovamento di parti ignote e oscure di noi, delle debolezze indicibili che un narcisismo accecante non ci ha permesso di vedere.
Vista in controluce, invece, l’ansia potrebbe essere più alleata che nemica, più utile che dannosa, compagna di viaggio da non eliminare subito con la forza delle sostanze “magiche” (a volte utili) che ci acquietano con un sorso d’acqua. Ma va narrata e non combattuta, ascoltata piuttosto che rimandata in cantina. È energia bloccata da far circolare, controllo e vigilanza esasperata da allentare.
Narrarla vuol dire riconoscere dignità alle nostre parti fragili e deboli per temperare gli opposti e farli convivere.