Qualche giorno fa in una lettera al Direttore, un padre indignato scriveva: “La partita è stata «animata» da un tifo tutt’altro che sportivo rivolto sia alla squadra bresciana che agli arbitri, pesante anche dal punto di vista delle parole, ma l’apice è addirittura stato raggiunto con l’esposizione dello striscione: «Basket Ome come Viadana, figli conigli, mamma p…»”.
Non può non colpire questa ennesima narrazione della violenza che ha la forma offensiva delle di odio e fa perdere all’attività sportiva la caratteristica fondamentale del divertimento. Perché la parola “sport” che deriva dal francese antico, significa “diporto” e “svago”. In altri termini è attività che dà piacere e allo stesso tempo è gioco proprio come quello che fanno i piccoli a cui l’attività ludica serve per divertirsi ma al contempo apprendere e conoscere la realtà circostante. Cioè imparare a diventare adulti.
È giusto allora, indignarsi come fa questo padre, se nello sport facciamo entrare la violenza anche solo delle parole che possono essere devastanti quanto le azioni. Ha ragione a pretendere che le società sportive intervengano chiedendo scusa per l’accaduto. Ma ancora di più è urgente che la comunità degli adulti di riferimento rifletta sul modello educativo che sta utilizzando e ridimensioni lo spirito competitivo che regna nello sport. Ovviamente è importante che si prendano provvedimenti seri nei confronti dei tifosi che usano ogni forma di violenza negli stadi e ai bordi dei campi di gara.
Il problema vero è che l’attività sportiva, sempre più spinta verso la competizione eccessiva, rischia di alimentare comportamenti scorretti e di prevaricazione. Eppure il “fair play” è un corpus di regole importanti per il gioco leale e corretto. Va fatto assolutamente rispettare senza per questo si creda modifichi l’agonismo presente nelle competizioni, che è utile spirito combattivo.
Di fatto l’etimo della parola “agone” indica il concetto di “lotta” o “gara” che allude all’impegno da attivare.
Ma non va dimenticato che si tratta sempre di sport e quindi di svago, anche se è competizione. E pure qui, il termine “competere” è significativo perché ancora una volta l’etimologia ci dice che è un “chiedere insieme” e per estensione, “ un andare con altri verso un obiettivo”. In altre parole “dirigersi” non da soli verso la conquista di un risultato positivo che, negli sport di squadra, a prescindere dalla vittoria, è cooperazione e attività sportiva nel gruppo, dove il compito di ciascuno è quello di mostrare la preparazione individuale fisica o tecnica.
La pericolosità sta nell’alimentare la competitività dei singoli nello sport e confonderla con la competizione. Il rischio è che la pressione esercitata per “cercare il campione” non promuova una sana competizione, ma faccia emergere di più la tendenza a prevalere sugli altri e spinga l’atleta non tanto a mostrare cosa sa fare, quanto a vincere a tutti i costi sull’avversario.
In altre parole, nello sport serve educare al compito della competizione in gruppo e non alla vittoria. Serve stimolare il miglioramento delle prestazioni personali che, insieme alla perseveranza e al rispetto degli altri, portano al successo. Educare alla vittoria e alla competitività esasperata invece alimenta la voglia di primeggiare sul “nemico” con qualsiasi mezzo!