Etna e i suoi miti
Era il 1976 e sull’Etna era in corso una eruzione. Con un gruppo di amici ci avviammo per uno dei sentieri che ci avrebbe portato verso il costone da cui si poteva ammirare la sciara di fuoco. A quell’epoca non erano attive tutte le norme di sicurezza che vigono adesso, era con noi solo una giovane guida. Non lontanissimo da una casetta di campagna, stavamo attraversando una specie di pianoro che finiva in una timpa (piccolo burrone), quando ci accorgemmo di essere già più vicini al fiume di lava di quanto avessimo supposto. La massa fumante procedeva lenta con il suo caratteristico rumore di ciottoli. Aveva invaso già la piccola timpa, su quel mare fumante vedevamo galleggiare, contorte dal fuoco, foglie di vite. Ci fermammo preoccupati e prudenti, mentre la lava accerchiava quasi dolcemente un piccolo pesco fiorito. L’albero rimaneva vibrante e indenne mentre la colata lo cingeva lentamente. Ero stupita e affascinata da come resistesse al calore del magma. Improvvisa e violenta una fiammata fulminea lo incenerì, in pochi istanti. Per quel gruppetto di umani quella fu un’emozione indimenticabile, una lezione scioccante sulla potenza magica del Vulcano. Quel breve spazio di tempo col suo carico di stupore, fascino e paura trasmigrò nell’inconscio di tutti noi, incasellandosi fra le immagini mitizzate. Immagini/ponte tra percezioni sensoriali e idee. E sull’onda di spettacoli indescrivibili, l’Etna ha da sempre stimolato negli uomini emozioni che vanno dal timor panico al fascino meravigliato, permettendo alla fantasia di rileggere le sue manifestazioni in chiave simbolica o mitica, nel tentativo di avvicinare il mistero ed il fascino della “Montagna”.
Cominciamo dal nome, antico e dai molteplici significati.
Aἴτναας, “Aitnē”, dalla parola greca “Aiteos che significa bruciare, per i colonizzatori greci provenienti dalla Calcide stupiti da quella montagna che si ergeva bruciando davanti al navigatore. Nome latinizzato poi dai romani in “Aetna“.“Jabal an-Nār” (“Montagna di Fuoco”)per gli arabi, e poi Mons Gibel, Mongibello, in siciliano Mungibeddu. Ma i catanesi si rivolgono a “Lei”, ‘a Muntagna, perché la sentono una madre generosa e temibile. O forse perché pensano alla leggenda antica e dalle molte versioni, una delle quali narrata da Diodoro Siculo, della ninfa Etna.
Figlia di Urano e di Gea le due divinità simbolo rispettivamente del Cielo e della Terra, Etna rappresenterebbe la fusione e il punto di raccordo tra il centro magmatico terrestre e la superiore volta celeste .
Il mito dei suoi figli Palici, richiamato anche da Eschilo nelle Etnee, da Ovidio nelle Metamorfosi e da Virgilio nell’Eneide , racconta che Etna, incinta di Zeus, si sarebbe rifugiata nelle viscere del Vulcano per sfuggire alla gelosia di Hera . Quindi i suoi gemelli, Pàlin ikèsthai, cioè “nati due volte”, da cui Palici, sarebbero nati prima uscendo dal grembo materno e poi dalle viscere della Montagna. I gemelli rappresentavano le sorgenti termali solforose (vedremo dopo perché) ed erano considerati protettori dai naviganti.
La ninfa Etna e il suo ruolo decisivo nella lotta tra Tifeo e Zeus
Un’altra versione del mito, racconta il ruolo decisivo della ninfa Etna nello scontro tra il gigante Tifeo e Zeus. I Giganti, figli di Gea e fratelli dei Titani, da sempre ritenevano il potere di Zeus illegittimo e decisero, quindi, di provare a spodestarlo. Ebbe così inizio una terribile e sanguinosa guerra, la Gigantomachia, tra il padre degli dèi e i Giganti. Fra questi era Tifeo, gigante metà uomo metà animale, con testa d’asino, ali di pipistrello, due draghi fiammeggianti al posto delle gambe e cento serpenti sulle spalle. La lotta cominciata sull’Olimpo, fu lunghissima ed ebbe alterne vicende. Alla fine Tifeo riuscì a fuggire verso occidente e giunto in Sicilia tentò una disperata difesa sollevando l’intera isola per gettarla contro il Re dell’Olimpo. A questo punto Zeus scagliò contro il gigante un ultimo potentissimo fulmine, colpendolo in pieno. Tifeo cadde rimanendo schiacciato sotto l’isola che aveva sollevato. Sopra la sua mano destra gravava Peloro (Messina), sopra la sinistra Pachino, Lilibeo (Marsala) gli opprimeva le gambe, e sopra la testa gravava la ninfa Etna.
E ancora oggi Tifeo, cercando di liberarsi da questa prigionia, provocherebbe terremoti ed erutterebbe fuoco.
Tifeo venne rappresentato da Gustav Klimt nel celebre Fregio di Beethoven. Nell’universo malefico delle Gorgoni e delle loro compagne orrifiche regna Tifeo, un’orrenda scimmia con coda di serpenti e ali che rappresenta l’ottusità materialista. Lo affiancano a sinistra le tre Gorgoni: malattia, follia, e morte; mentre le tre donne a destra incarnano la voluttà, la lussuria, l’eccesso. In fondo fra le spire dei serpenti, è visibile una lugubre figura dai lunghi capelli neri: l’angoscia.
Di queste fantasie… cosa ci resta?
Un tempio
La nascita dei gemelli Palici, figli di Etna, dal ventre della terra, avrebbe provocato le fratture e il ribollire che avrebbero originato i crateri, e quindi i laghetti, chiamati di Naftia, accanto a cui sorse un tempio consacrato ai mitici fratelli. Attorno al tempio, un luogo di culto di grande rilevanza, si estese l’insediamento di Palikè.
L’oracolo dei Palici fu considerato il più importante della Sicilia, e le acque di Naftia erano sacre per rituali, giuramenti, prove.
I laghetti di Naftìa
«Per prima cosa vi sono dei crateri che, dal punto di vista della grandezza non sono affatto grandi, ma emettono sorgenti impetuose da una indicibile profondità, ed hanno una natura simile ai lebeti(vasi profondi) quando vengono arsi da molto fuoco ed emettono acqua caldissima…. e cosa più di queste straordinaria, l’acqua né trabocca né si ritrae, ma presenta un movimento e una violenza del flusso, nel sollevarsi in alto, che suscita meraviglia».
Diodoro Siculo adesso sta descrivendo i laghetti di Naftia, pericolosi specchi di acque sulfuree giallo-verdastre, dalle terribili esalazioni oggi non più visibili: sono stati prosciugati e i gas sfruttati industrialmente.
Ed è per spiegarsi la nascita e l’esistenza di queste ribollenti fonti che chiaramente nasce il mito dei gemelli.
L’area archeologica di Palikè
L’area archeologica di Palikè si sviluppa nella campagna, in località Rocchicella, non lontano da Palagonia circondata da distese di fichi d’india.
E’ Diodoro Siculo ad affermare che venne fondata dal capo siculo Ducezio nel 453 a.C., su di un’altura, presso l’antico santuario degli dei Palici. Proprio in prossimità del tempio, infatti, Ducezio avrebbe stabilito la sede della sua lega di città sicule
Il sito ai nostri giorni
Oggi questo sito appartiene alla Regione Siciliana ed è visitabile. L’area è protetta e recintata, la fruizione è agevolata da percorsi segnati e arricchita dalla visita dell’Antiquarium, un’esposizione dei materiali riaffiorati durante gli scavi.
Dagli scavi è emerso,inoltre, che quest’area è stata abitata già in età preistorica, nel VI-V millennio a.C., e sfruttata fino in epoca sveva, sia per l’agricoltura che come via di collegamento tra la costa e l’entroterra. Tantissimi sono i resti che testimoniano il passaggio dell’uomo: dagli strumenti litici esposti all’Antiquarium, alle tombe a grotticella che forano le pareti dell’altura, ai resti della Palikè di Ducezio.