“La nostra gioventù ama il lusso, è maleducata, se ne infischia dell’autorità e non ha rispetto per gli anziani” Sembra uno di quei giudizi che pronunciamo un po’ tutti ogni qualvolta incontriamo adolescenti maleducati e offensivi. Invece questa frase la scriveva Socrate nel 470 a. C.
Viene da domandarsi quanto queste parole denigratorie, identiche da millenni, rappresentino la realtà o, viceversa, siano espressione del pregiudizio o della paura che da sempre ha caratterizzato lo sguardo verso le nuove generazioni.
Di certo è evidente che agli adulti di oggi, spesso in grande difficoltà davanti allo tsunami che scatena il passaggio dall’infanzia alla preadolescenza, serve un tempo di riflessione lungo o quanto meno pari a quell’adolescenza che, nella nostra epoca, sembra diventata interminabile.
Capire i nuovi giovani, quelli che ora vivono nell’epoca delle rivoluzionarie tecnologie della comunicazione le quali stanno cambiando radicalmente la realtà e l’esistenza di tutti, non è facile. Prima però di denigrarli con severità, dovremmo pensarli come sono e vederli non solo e non tanto dalla prospettiva negativa della cronaca nera che di solito enfatizza le ombre e i tratti morbosi, ma con le potenzialità che hanno e tentare di capire quali difficoltà oggi si incontrano per crescere.
Questi ragazzi, ai quali in rapida sequenza diamo nomi sempre diversi come “nativi digitali” o millennials e, più recentemente, “face down generation”, cioè con il capo perennemente rivolto in basso sullo smartphone, sono i giovani che abbiamo fatto crescere noi. Parafrasando Arthur Muller, “sono tutti nostri figli”.
Li abbiamo precocemente adultizzati e super gratificati, spianando le loro salite ed eliminando ogni ostacolo. Dopo aver abbandonato il sistema educativo della colpa e ridotta al minimo la rappresentazione dell’autorità che, una volta, con regole rigide chiedeva ai bambini di essere in un certo modo, ora ad un certo punto del processo di individuazione, rivendichiamo il diritto di mettere confini alle loro pretese e porre paletti. Negli ultimi anni abbiamo insistito nel dire che si facessero valere, che si esprimessero e diventassero sempre più visibili, e poi ci meravigliamo dell’infinità di selfie con i quali comunicano tra di loro.
Difficile cambiare rotta o diventare d’un colpo credibili e autorevoli sulla scena dell’adolescenza, quando per lunga pezza abbiamo disertato l’autorità e le funzioni che essa rappresenta. Impossibile essere riconosciuti come adulti di riferimento, educatori competenti, se abbiamo fatto prevalere le nostre preoccupate attenzioni e li abbiamo iperprotetti riducendo al minimo la somministrazione di ogni frustrazione ed evitando loro qualsiasi ferita narcisistica.
In questo modo lo star male di oggi e quella visibile fragilità, compensata spesso dal diffuso narcisismo, sembra essere espressione di una generazione che tutto sommato non è stata aiutata a crescere e si sente isolata, incapace di fidarsi del mondo, spesso in fuga per paura di diventar grande e, sovente, afflitta dall’angoscia di dover assecondare un corpo che si trasforma e si sviluppa. I tagli, ad esempio, e le ferite che si infliggono i nuovi giovani, sono comportamenti autolesivi preoccupanti e pericolosi che contagiano sempre di più e diventano strategie più o meno coscienti di rendere fisico un dolore interno che l’adolescente non capisce e teme.
L’iperconnessione di questa generazione che può condurre alla dipendenza e all’isolamento sociale, appare anche come un nuovo bisogno di sostegno da parte di quel gruppo che in adolescenza ha sempre avuto una grande funzione, ma è anche il tentativo di rifugiarsi nel mondo virtuale per vincere la solitudine e compensare con l’esuberanza delle relazioni virtuali la povertà di quelle reali che offriamo loro.
Giuseppe Maiolo
Università di Trento
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